Le «armi nascoste» dell’oncologia grazie alle terapie poco invasive

Intervista Prof. R.F. Grasso su Il Giornale

Tecniche interventistiche hi-tech e selettive. L’obiettivo di ridurre la durata dei ricoveri. Approccio multidisciplinare

La parola fa ancora paura eppure, oggi, il tumore può essere considerato una malattia cronica, da curare con terapie efficaci, ma con la quale si può convivere a lungo, con una vita «di qualità» che non precluda affetti, lavoro e relazioni. Per fortuna, la medicina e le scienze per la vita hanno fatto passi da gigante; l’oncologia dispone oggi di nuove «armi» di radiologia interventistica, a volte poco conosciute ma che possono affiancare terapie consolidate quali la immunoterapia, la chemioterapia, la radioterapia e contribuire a stabilizzare la malattia e migliorare la vita dei pazienti.

Ne parliamo con il Professor Rosario Francesco Grasso, Responsabile Radiologia interventistica e Professore Associato Diagnostica per Immagini e Radioterapia al Policlinico Universitario – Campus Biomedico di Roma, uno dei massimi esperti in Italia. Il quale ci ricorda come l’approccio al paziente oncologico sia necessariamente multidisciplinare, coinvolga diversi specialisti e consideri la patologia in tutti gli aspetti, fisici e psicologici. 

Sui trattamenti, il professor Grasso specifica che si tratta di «terapie mininvasive» che affiancano in modo sinergico le cure più frequentemente adottate (immunoterapia, chemioterapia e radioterapia) con funzioni curative, palliative e mantenitive. Esse prevedono l’impiego di dispositivi tecnologici e si basano su tecniche di crioablazione, termoablazione e radioembolizzazione: l’obiettivo è quello di colpire in modo selettivo il bersaglio tumorale, allo scopo di ridurlo o eliminarlo attraverso la necrotizzazione dei tessuti.
«Clinicamente – prosegue il professor Grasso – questi trattamenti sono definiti locoregionali, cioè procedure che colpiscono selettivamente il tumore con l’obiettivo di stabilizzare la malattia, alleviare il dolore e migliorare la qualità di vita del paziente riducendo la permanenza in ospedale».
La crioablazione, particolarmente efficace per le patologie tumorali renali, viene utilizzata di norma su lesioni inferiori a 4 cm, in pazienti non idonei o che comunque rifiutano l’intervento chirurgico, e si effettua attraverso «accessi percutanei» che non prevedono l’incisione della cute.
Inserendo aghi di varie dimensioni, è possibile congelare diverse aree dell’organo colpito. Si viene così a creare una palla di ghiaccio che determinerà la necrosi del tessuto, garantendo, inoltre, un margine di sicurezza nel tessuto circostante sano. La
crioablazione si caratterizza anche per il ridotto dolore percepito rispetto alle tecniche ablative a caldo. Altra caratteristica, supportata dall’evidenza scientifica, è il ridotto tasso di ospedalizzazione rispetto alle terapie standard.
«Ci sono evidenze cliniche – ribadisce il professor Grasso – che la crioablazione di neoplasie renali abbia un’efficacia paragonabile a quella chirurgica in ampie casistiche nei tumori inferiori a 4 cm, con minori complicanze e ridotta ospedalizzazione. Quando, invece, la crioablazione viene proposta per un paziente oncologico avanzato, va considerata come una terapia non “antagonista” rispetto a quelle mediche o di radioterapia. Proprio tale tecnica contribuisce, inoltre, ad amplificare le risposte dell’immunoterapia».
Con la termoablazione si identifica, invece, una procedura che favorisce la distruzione dei noduli tumorali attraverso energia termica immessa nel bersaglio tumorale. Rispetto alla crioablazione, la termoablazione è più rapida, meno complessa e trova impiego principalmente nei tumori primitivi e secondari del fegato e nelle metastasi del polmone. La termoablazione con microonde, per esempio, si è dimostrata efficace su tumori di piccoli dimensioni (meno di 3 cm) con una radicalità paragonabile a quella chirurgica nel caso delle lesioni focali epatiche. Il trattamento non è però indicato per tutte le patologie, è efficace soprattutto per i tumori del fegato e del rene, e per condizioni particolari (tumori di dimensioni ridotte, situati in aree non operabili chirurgicamente).
La radioembolizzazione è invece un trattamento per i tumori primari e secondari del fegato e prevede l’introduzione di microsfere di vetro radioattive direttamente nella massa tumorale. Le microsfere – contenenti ittrio-90 radioattivo – vengono iniettate nell’arteria epatica con un sottile catetere (in anestesia locale, con una piccola incisione nell’inguine).
Percorrendo i vasi sanguigni, la radioattività raggiunge il tumore, si deposita nei suoi capillari e prosegue l’azione «distruttiva», simulando l’azione della radioterapia esterna ma con modalità differenti.
«I risultati clinici di tali trattamenti sono evidenziati da ampie casistiche internazionali – conclude il professor Grasso – aprendo infinite opportunità nel settore oncologico. Le tecnologie riconfermano, tra l’altro, la funzione strategica del radiologo interventista che, a partire dalla biopsia iniziale dell’organo interessato, può delineare precocemente il profilo della malattia».
La battaglia contro le patologie tumorali è incessante, ma ugualmente instancabile è la scienza che ogni giorno mette a disposizione soluzioni per alleviare le sofferenze, potenziare le terapie e accelerare il recupero di una buona qualità di vita. Possiamo chiamarle, a questo punto, «armi nascoste» dell’oncologia. Ma, forse, la definizione che rende giustizia è quella di nuovi e preziosi «alleati per la vita».

Intervista di Riccardo Cervelli
28 Ottobre 2020

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